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L’illusione della libertà senza solidarietà. Dal nuovo libro di Zygmunt Bauman

L’illusione della libertà senza solidarietà
Zygmunt Bauman

 

Cose che abbiamo in comune

 

Il nostro mondo liquido-moderno è in continua trasformazione. Tutti noi – volenti o nolenti, consapevoli o no, che ci piaccia o meno – veniamo trascinati via senza posa, anche quando ci sforziamo di rimanere immobili nel punto in cui ci troviamo.
Le lettere raccolte nel nuovo libro di Zygmunt Bauman, Cose che abbiamo in comune,  non sono altro che ‘racconti di viaggio’ e le storie in esse contenute sono dei resoconti di viaggio: scritte in viaggio, raccontano di viaggi. Guardando indietro e ripensando a come siamo arrivati qui, quali di queste storie abbiamo in comune?

Proponiamo qui una delle 44 lettere dal mondo liquido, già anticipata da la Repubblica mercoledì 5 settembre.

Chi ha detto che dobbiamo stare alle regole?
La domanda appare con grande rilievo in testa al sito internet locationindependent.com. Immediatamente più in basso, viene suggerita una risposta:

Sei stufo di dover seguire le regole? Regole che ti impongono di ammazzarti di lavoro e guadagnare un mucchio di soldi in modo da permetterti una casa e un mutuo imponente? E lavorare ancora più duramente per ripagarlo, sino al momento in cui avrai maturato una bella pensioncina […] e finalmente potrai iniziare a goderti la vita? A noi quest’idea non andava – e se non va neanche a te, sei finito nel posto giusto.

Leggendo queste parole non ho potuto fare a meno di ricordare una vecchia barzelletta che circolava all’epoca del colonialismo europeo: mentre passeggia tranquillo per la savana, un inglese che indossa gli irrinunciabili simboli di un compìto colonialista, con tanto di elmetto di ordinanza, s’imbatte in un indigeno che russa beato all’ombra di un albero. Sopraffatto dall’indignazione, per quanto mitigata dal senso di missione di civiltà che lo ha portato in quelle terre, l’inglese sveglia l’uomo con un calcio, gridando: «Perché sprechi il tuo tempo, fannullone, buono a nulla, scansafatiche?». «E cos’altro potrei fare, signore?», ribatte l’indigeno, palesemente interdetto. «È pieno giorno, dovresti lavorare!». «Perché mai?», replica l’altro, sempre più stupito. «Per guadagnare denaro!». E l’indigeno, al colmo dell’incredulità: «Perché?». «Per poterti riposare, rilassare, goderti l’ozio!». «Ma è esattamente quello che sto facendo!», aggiunge l’uomo, risentito e seccato.

Beh, il cerchio si è chiuso: siamo forse arrivati alla fine di una lunga deviazione e tornati al punto di partenza? Lea e Jonathan Woodward, due professionisti europei estremamente colti e capaci che dirigono il sito «locationindependent» citato prima, stanno forse riconoscendo, esplicitamente e direttamente, senza tanti giri di parole, un concetto premoderno, innato e intuitivo che i pionieri, gli apostoli e gli esecutori della modernità avevano screditato, ridicolizzato e tentato di estirpare quando esigevano invece che le persone lavorassero duramente per tutta la vita e che solo in seguito, alla fine di interminabili fatiche, iniziassero a «spassarsela»?! Per i Woodward, così come per l’«indigeno» del nostro aneddoto, l’insensatezza di una tale proposta è talmente lampante da non meritare alcuna spiegazione, né una riprova discorsiva. Per loro, così come per l’«indigeno», è chiaro come il giorno che anteporre il lavoro al riposo – e quindi, indirettamente, rimandare una soddisfazione potenzialmente istantanea (quella sacrosanta regola a cui il colonialista dell’aneddoto e i suoi contemporanei si attenevano alla lettera) – non è una scelta più saggia né più utile di quella di chi mette il carro davanti ai buoi.

Che oggi i Woodward possano affermare con tale sicurezza e convinzione delle opinioni che solo una o due generazioni fa sarebbero state considerate un’abominevole eresia è indice di un’imponente «rivoluzione culturale». Una rivoluzione che non ha trasformato soltanto la visione che i rappresentanti delle classi colte hanno del mondo, ma il mondo stesso in cui sono nati e cresciuti, che impararono a conoscere e sperimentarono. Affinché potesse apparire lampante, la loro filosofia di vita doveva basarsi sulla realtà contemporanea e su solide fondamenta materiali che nessuna autorità costituita sembra intenzionata a mettere in discussione.

Le fondamenta della vecchia/nuova filosofia di vita appaiono ormai incrollabili. Quanto profondamente e irreversibilmente il mondo sia cambiato nella sua transizione alla fase «liquida» della modernità è dimostrato dalla timidezza delle reazioni dei governi di fronte alla più grave catastrofe economica verificatasi dalla fine della fase «solida», quando ministri e legislatori hanno deciso, quasi per istinto, di salvare il mondo della finanza – ma anche i privilegi, i bonus, i «colpacci» in Borsa e le strette di mano che suggellavano accordi miliardari e ne consentivano la  sopravvivenza: quella potente forza causale e operativa che è stata alla base della deregulation, e principale paladina ed esponente della filosofia dell’«inizieremo a preoccuparcene quando accadrà»; di pacchetti azionari suddivisi in parcelle rimasti immuni dalla responsabilità delle conseguenze; di una vita che si basa sul denaro e sul tempo presi a prestito, e di una modalità di esistenza ispirata al «godi subito e paga dopo». In altre parole, quelle stesse abitudini, che il potere ha facilitato, a cui in definitiva il terremoto economico in questione potrebbe (e dovrebbe) essere ricondotto.

Anziché tentare di raggiungere ed eliminare le fonti del problema, l’intervento dei governi ha difeso a gran voce coloro che ne erano i responsabili, sottoscrivendo pubblicamente ed esemplarmente la loro legittimità e indispensabilità, e decretando che il loro mantenimento e rafforzamento era nell’«interesse nazionale ». Come ci ha informato il corrispondente del «New York Times» il 13 settembre 2009, «se richiedi un prestito per acquistare un’automobile o accumuli debiti sulla tua carta di credito, è molto probabile che sia il tuo debito che quello della tua banca siano finanziati dal governo». Tuttavia, «anziché seguire da vicino la gestione delle imprese di proprietà del governo, Obama e la sua squadra di economisti hanno spesso compiuto sforzi immani per evitare di esercitare alcun controllo, anche quando a tenere a galla tali imprese era esclusivamente il denaro pubblico». Il governo ha tentato di estirpare l’odio dalle tattiche «testa, vinco io; croce, perdi tu» adottate da coloro che prestano denaro, convertendo il marchio infamante dei comportamenti incauti e pericolosamente disinvolti in segno di prudenza e di giusta comprensione dell’interesse nazionale, o addirittura di estremo patriottismo. E vi è riuscito, arricchendo il suddetto precetto delle tattiche praticate da chi concede prestiti di un’ulteriore opzione governativa: «testa, vinci tu; croce, ti salvo io».

Tuttavia, nell’appello dei Woodward c’è qualcosa di più in gioco, molto di più, della differenza tra un posto di lavoro ancorato a un luogo, tutto racchiuso all’interno di un unico edificio commerciale, e uno itinerante, diretto verso mete predilette quali la Tailandia, il Sudafrica e i Caraibi. E non si tratta semplicemente di «essere stufi dell’instabilità della corsa al successo e di lavorare per conto di altri» (l’esperienza che, come suggeriscono, li ha spinti a realizzare il sito, inventarsi uno stile di vita e gettare le basi dell’«indipendenza da un luogo preciso»). A essere realmente in gioco è, come loro stessi ammettono, la «libertà di scegliere ciò che è giusto per te» – per te, e non «per gli altri» – o di come condividere il pianeta e lo spazio con questi altri.

Assumendo tale principio a parametro con cui misurare la correttezza e il valore delle scelte di vita, i Woodward si trovano sulla stessa linea di pensiero delle persone contro le quali si ribellano, come i dirigenti e i manager della Lehman Brothers e tutti i loro innumerevoli emuli, nonché coloro che – come scrive Alex Berenson, del «New York Times» – ricevono «stipendi a otto cifre» (accusa che con ogni probabilità i Woodward rifiuterebbero indignati).

Tutti, unanimemente, approvano il fatto che «l’ordine dell’egoismo » abbia preso il sopravvento su quell’«ordine della solidarietà », che un tempo aveva il suo vivaio più fertile e la cittadella principale nella protratta condivisione (ritenuta senza fine) dei locali in uffici e fabbriche. Sono stati i consigli di amministrazione e i dirigenti delle multinazionali, con il tacito o manifesto sostegno e incoraggiamento del potere politico in carica, a occuparsi di smantellare le fondamenta della solidarietà tra impiegati mediante l’abolizione del potere di contrattazione collettivo, smobilitando le associazioni di tutela dei lavoratori e obbligandole ad abbandonare il campo di battaglia; tramite l’alterazione dei contratti di lavoro, l’esternalizzazione e il subappalto delle funzioni manageriali e delle responsabilità dei dipendenti, deregolamentando (rendendo «flessibili») gli orari di lavoro, limitando i contratti di lavoro e al tempo stesso intensificando l’avvicendarsi del personale e legando il rinnovo dei contratti alle prestazioni individuali, controllandole da vicino e in continuazione. Ovvero, per farla breve, facendo tutto il possibile per colpire la logica dell’autotutela collettiva e favorire la sfrenata competitività individuale per assicurarsi vantaggi dirigenziali.

Il passo definitivo per porre fine una volta per tutte a qualsiasi occasione di solidarietà tra dipendenti – che per la grande maggioranza delle persone rappresenta l’unico mezzo per raggiungere la «libertà di scegliere ciò che fa per te» – richiederebbe, comunque, l’abolizione della «sede di lavoro fissa» e dello spazio condiviso dai lavoratori, in ufficio o in fabbrica. Ed è questo il passo che Lea e Jonathan Woodward hanno compiuto. Con le loro competenze e credenziali se lo sono potuti permettere. Tuttavia non sono molte le persone che si trovano nella condizione di cercare un rimedio alla propria mancanza di libertà in Tailandia, in Sudafrica o ai Caraibi, non necessariamente in questo stesso ordine. Per tutti gli altri che non sono in una simile posizione, il nuovo concetto/stile di vita/impostazione mentale dei Woodward confermerebbe una volta per tutte quanto le loro perdite siano definitive, dal momento che meno persone rimarrebbero impegnate nella difesa collettiva delle loro libertà individuali. L’assenza più cospicua sarebbe quella delle «classi colte», a cui un tempo spettava il compito di sollevare dalla miseria gli oppressi e gli emarginati.

Cos’hanno da guadagnare i Woodward? È tutto ancora da vedere: è davvero possibile trovare delle efficaci soluzioni individuali a problemi di natura sociale? Intanto, sul sito «locationindependent » è apparsa una notizia dell’ultima ora: «Lea & Jonathan hanno avuto una bambina (non programmata & assolutamente imprevista!). Nata, con impeccabile tempismo, il 4 di luglio. La coppia prevede di riprendere i propri viaggi alla fine del 2009, insieme alla bambina». Adesso che si affacciano a una nuova fase della loro vita, dovremmo augurare loro tanta fortuna. Negli anni a venire incontreranno altri fattori (come dicono loro, «non programmati e assolutamente imprevisti!») con cui fare i conti. E per far fronte a quelle realtà e alle sfide che queste comportano non avranno nessuno su cui contare, al di fuori di se stessi.

 

Zygmunt Bauman, Cose che abbiamo in comune. 44 lettere dal mondo liquido, pp. 160-164

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